Intervenendo in parlamento
Conte conferma la sua dittatura e il “decreto rilancio” al servizio del regime capitalista neofascista
Nel dibattito il richiamo alla Costituzione da parte di esponenti di destra e di “sinistra” dimostra che essa è funzionale a questo regime. Renzi salva Bonafede e il governo in cambio di un maggior spostamento a destra dell'esecutivo e di posti di sottogoverno
Più che mai necessaria la lotta al capitalismo per il socialismo e il potere politico del proletariato

Giovedì 21 maggio Giuseppe Conte si è recato in parlamento, prima alla Camera e nel pomeriggio al Senato, per l'ennesima “informativa” a posteriori sulle misure già prese autonomamente dal governo: stavolta si trattava delle regole per l'allargamento delle riaperture a bar, ristoranti, stabilimenti balneari ecc. e dell'appena pubblicato “decreto rilancio” da 55 miliardi. E anche stavolta egli si è presentato davanti a deputati e senatori col ramoscello d'ulivo, spacciando disinvoltamente la sua burocratica “informativa” per volontà di “condivisione” degli indirizzi di governo, quando invece ancora una volta il parlamento è stato messo semplicemente davanti al fatto compiuto.
Conte ha iniziato affrontando subito la principale delle critiche che gli vengono rivolte: quella di aver assunto delle decisioni – come egli stesso le ha eufemisticamente definite - “suscettibili di incidere su alcuni dei diritti fondamentali garantiti dalla nostra Costituzione”. Una critica che egli respinge risolutamente al mittente, tanto quanto quella di aver accelerato troppo la riapertura nonostante il parere contrario del Comitato tecnico-scientifico e del ministero della Salute: “Dopo tre mesi esatti dal primo caso registrato all'ospedale di Codogno - ha tagliato infatti corto il premier - possiamo affermare in coscienza di aver compiuto la scelta giusta, l'unica in grado di contrastare il diffondersi dell'epidemia sull'intero territorio nazionale. Con la stessa determinazione ritengo oggi possibile, anzi doveroso, pur in presenza di un quadro epidemiologico non completamente risolto, compiere una scelta coraggiosamente indirizzata verso un rapido ritorno alla normalità”.
 

Conte bara sul “ritorno alla legalità costituzionale”
Conte insomma si fa scivolare addosso le critiche e tira dritto sulla sua linea dittatoriale giustificata con lo stato di emergenza, nonostante abbia esordito davanti all'aula proclamando che “Il peggio è alle nostre spalle”. “Siamo nella condizione di attraversare la 'fase 2' con fiducia e responsabilità”, ha proseguito infatti, perché “abbiamo predisposto un accurato piano nazionale di monitoraggio” (del quale però gli esperti continuano a denunciare la sostanziale mancanza o quantomeno un forte ritardo); e quanto ai rischi di una fiammata di ritorno della pandemia, “è un rischio, però, che abbiamo calcolato” e che “dobbiamo accettare”. Non solo per non compromettere il tessuto economico e produttivo, ma anche perché – e qui Conte si è eretto furbescamente egli stesso a difensore dei diritti costituzionali - la permanenza di così severe misure limitative oltre il tempo necessario ad invertire la curva del contagio sarebbe irragionevole e assolutamente incompatibile con i principi della nostra Costituzione”.
Già, ma allora, se come dice ormai non c'è più bisogno di prolungare oltre le misure di compressione delle libertà costituzionali, come quelle di movimento, riunione, manifestazione, perché nel “decreto rilancio” ha voluto inserire il prolungamento di altri 6 mesi dello stato di emergenza, che non è neanche previsto dalla Costituzione, salvo lo stato di guerra, promulgato comunque dal parlamento e non dal presidente del Consiglio? Conte bara spudoratamente: ha riaperto tutto non per rispetto della Costituzione ma perché non riusciva più a tenere a freno gli industriali, i commercianti e i presidenti delle Regioni, ma intanto si tiene ben stretti per i prossimi mesi i poteri speciali che si è del tutto arbitrariamente arrogato. Tutto questo con la scusa di un fantomatico “articolato sistema di controlli e interventi degli andamenti epidemiologici”, che a suo dire farebbe del nostro Paese il primo al mondo per numero di tamponi per abitante, e che esiste più nella sua testa che nel Paese reale. E con la scappatoia che se i focolai riprenderanno la colpa la si può sempre dare ai giovani, da lui severamente ammoniti a rispettare le regole perché “non è ancora questo è il tempo dei party, delle movide e degli assembramenti”.
 

Le manovre di Renzi sulla sfiducia a Bonafede
Dopodiché il premier è passato ad illustrare le misure del “decreto rilancio” che “pone le basi per una ripartenza economica del Paese”, magnificando in particolare “le misure di sostegno alle imprese, un capitolo che mobilita circa 15 miliardi di euro in termini di maggiore disavanzo attraverso aiuti a fondo perduto, sgravi fiscali e un ampio ventaglio di incentivi volti a sostenere la riapertura in sicurezza delle attività economiche”; con particolare riferimento alla cancellazione del saldo e acconto Irap di giugno “che trattiene all'interno delle imprese 4 miliardi di liquidità, a beneficio di oltre 2 milioni di aziende”. Tra le misure che saranno invece oggetto del prossimo “decreto semplificazione”, Conte si è soffermato soprattutto su quelle in preparazione per il settore delle infrastrutture, “per fornire all'Italia uno shock, uno shock economico senza precedenti”, “la madre di tutte le riforme”.
Qui il premier ha voluto lanciare un chiaro segnale a Renzi. Il giorno prima, in Senato, c'era stato il voto sulle due mozioni di sfiducia al ministro della Giustizia Bonafede, una del “centro-destra” (Lega, FdI e FI), mirante a dare una spallata al governo, e una di +Europa, entrambe reclamanti le dimissioni del ministro, anche se con motivazioni in parte opposte. Queste riguardavano i fatti inerenti alla scarcerazione e il confinamento ai domiciliari per motivi sanitari di centinaia di boss mafiosi grandi e piccoli, e al ripensamento di Bonafede sulla nomina di Di Matteo a capo del Dap (Dipartimento affari penitenziari) nel giugno 2018, nomina alla quale i boss mafiosi erano ferocemente contrari. Ripensamento sulle cause del quale Bonafede non ha fornito chiarimenti, se cioè sia stato esclusivamente suo e perché, o se gli sia stato imposto da qualcuno della precedente alleanza di governo, per esempio da Salvini.
Le due mozioni sono state respinte e Bonafede ha salvato la pelle, ma il fatto è che Renzi aveva minacciato per settimane di votare per almeno una delle due, nel qual caso il ministro non avrebbe avuto scampo. Un bluff, dato che Conte e Zingaretti avevano fatto sapere che in quel caso sarebbe caduto il governo, e Renzi, col suo misero 3% nei sondaggi e senza una legge elettorale proporzionale, non sarebbe assolutamente in grado di sopravvivere a un'evenienza simile. Ma il suo obiettivo non era quello, bensì, vestendo i panni del Ghino di Tacco di craxiana memoria, quello di ricattare Conte per spostare più a destra l'asse governativo e avere qualche posto di sottogoverno in più. Per esempio, visto che a giugno si dovrebbero rinnovare le presidenze di diverse Commissioni parlamentari, la presidenza degli Affari costituzionali per Maria Elena Boschi, e/o quella della Bilancio per il fidato Luigi Marattin, e magari anche quella dell'Ag com. Non a caso il giorno prima si era svolto un incontro riservato tra Conte e la Boschi a Palazzo Chigi.
 

Sì a grandi opere e deregulation nei cantieri
Sta di fatto che, ritirando la minaccia all'ultimo tuffo, Renzi si è potuto vantare di “aver tenuto in piedi il governo”, giustificando la sua giravolta con i “segnali importanti dal governo” sull'Irap, sulla proposta della ministra Bellanova sui braccianti irregolari e sull'accelerazione delle riaperture, e smentendo la trattativa sulle poltrone: “Le poltrone possono tenersele. A me interessa la politica. Io voglio sbloccare i cantieri”, andava ripetendo il bugiardo di Rignano . E Conte gli ha lanciato un segnale proprio sui cantieri, sottolineando nel suo discorso alle Camere che “attivare il motore delle opere pubbliche è una priorità per tutte le forze di maggioranza che sostengono questo Esecutivo, e alcune di esse (IV di Renzi, ndr) hanno già annunciato e proposto alcuni articolati che troveranno senz'altro spazio nel decreto-legge, al cui interno una sezione specifica sarà dedicata al rafforzamento delle capacità di spesa, all'accelerazione dei cantieri. Al riguardo prevediamo di definire un elenco prioritario di opere strategiche di grandi-medie dimensioni, che potranno essere realizzate con un iter semplificato rispetto al quadro normativo vigente, valutando, laddove opportuno, la concessione di poteri derogatori, senza che ciò faccia però venir meno i controlli più rigorosi, che assicurano piena trasparenza e tengono lontani gli appetiti delle infiltrazioni criminali”. Un impegno, questo di Conte, che non apre solo a Renzi e al grande padronato delle costruzioni, con lo sblocco delle grandi opere divoratrici di territorio, ma anche a Salvini e a tutto il “centro-destra”, che reclamano a gran voce, come hanno fatto anche nei loro interventi, la cancellazione del codice degli appalti per favorire le imprese che li finanziano e le cosche mafiose che gli portano voti.
Il dibattito in aula è stato tutt'altro che all'insegna della “condivisione” auspicata in partenza da Conte, anzi i leader del “centro-destra” lo hanno attaccato a testa bassa, dopo l'intervento del deputato M5S Ricciardi che aveva attaccato il “modello Lombardia” della sanità scatenando la furia dei leghisti e provocando la sospensione della seduta. Giorgia Meloni ha accusato esplicitamente il premier di aver ispirato quell'intervento proprio per negare nei fatti quella “collaborazione” con l'opposizione da lui auspicata a parole.
 

La destra cavalca le pretese padronali
Il capogruppo della Lega alla Camera, Riccardo Molinari, ha potuto così fare la vittima lamentando che la maggioranza possa “speculare sulle migliaia di morti della Lombardia”, e lo stesso ha fatto al Senato il suo boss Salvini, puntando il ditone contro “chi questa mattina ha ironizzato sui morti della mia Lombardia”. Molinari ha squadernato la linea della Lega sul “decreto rilancio”: bocciatura su tutta la linea, perché a fronte dei “tutelati”, cioè “dipendenti pubblici, pensionati e percettori di reddito di cittadinanza”, e dei “parzialmente tutelati”, cioè i lavoratori dipendenti in cassa integrazione, il dl non aiuta per niente “i dimenticati, cioè quella parte che contribuisce, con il proprio lavoro e fatturando, a pagare le tasse per mantenere tutti gli altri, che sono le partite IVA, le fabbriche, i ceti produttivi, gli autonomi, i professionisti”.
Cioè, secondo lui, i settori dove si annida il grosso dell'evasione fiscale sarebbero quelli che mantengono lavoratori dipendenti e pensionati! Da qui la riproposizione alquanto sfrontata in questa situazione drammatica della “flat tax” e del taglio delle tasse “alle partite Iva e ai ceti produttivi”. Già che c'era ha difeso anche il diritto della Fiat-Fca agli aiuti di Stato. Seguito a ruota dalla capogruppo di FI, Mariastella Gelmini, che ha chiesto per soprammercato la “pace fiscale” per tutti (leggi condono) e la cancellazione permanente dell'Irap. Uno dopo l'altro – Molinari, Meloni, Gelmini e Salvini – si sono poi scagliati contro quella che chiamano la “sanatoria” dei clandestini, in realtà la regolarizzazione molto ristretta e temporanea dei migranti braccianti e colf chiesta e ottenuta dalla ministra Bellanova, invocando al suo posto il ripristino dei voucher in agricoltura e i “corridoi verdi” per far rientrare i lavoratori stagionali dall'estero.
È interessante notare che, per attaccare Conte, Molinari si sia richiamato più volte alla Costituzione, accusandolo in particolare per l'uso dei decreti del presidente del Consiglio “nella fase della gestione dell'emergenza, dove con i DPCM limitavamo le libertà costituzionali, tanto che è dovuta intervenire anche la Presidente della Corte, Cartabia”. Anche nell'ultimo Dpcm, quello sull'anticipazione delle riaperture, lo ha accusato il capogruppo leghista, “lei vieta la libertà di associazione, lei vieta la libertà di manifestare, lei vieta la libertà di frequentare associazioni culturali”.
 

Costituzione borghese o lotta di classe
Lo stesso richiamo alla Costituzione borghese è stato fatto anche dalla Boschi, per lodare solo in apparenza Conte, rievocando anche lei l'intervento della Cartabia sulla Costituzione come “bussola nei momenti di crisi” e dicendo di aver apprezzato che il premier “abbia fatto tesoro anche di alcune critiche di illustri giuristi, come il professor Cassese e si sia passati ai decreti-legge, che possono vedere un coinvolgimento del Parlamento e un ruolo attivo di maggioranza e opposizione”.
Il richiamo alla Costituzione da parte di esponenti della destra e della “sinistra” borghesi dimostra che essa può essere tirata indifferentemente dall'una e dall'altra parte, e quindi che in ogni caso essa è funzionale al regime capitalista e neofascista, qualunque forza politica sia chiamata a gestirlo dagli scranni di governo.
Non è appellandosi alla Costituzione e restando ingabbiati nella democrazia parlamentare e nell'elettoralismo borghesi – anche se ne vanno difesi per quanto possibile gli spazi ancora residui – che il proletariato e le masse popolari potranno sperare di porre fine allo sfruttamento e all'oppressione del regime capitalista neofascista, ma solo confidando nella lotta di classe, per il socialismo. Non siamo tutti nella stessa barca. C'è quella del proletariato e quella della borghesia, e hanno destinazioni opposte. Quella della borghesia punta alla conservazione e al passato, quella del proletariato alla rivoluzione e al futuro. Oggi più che mai c'è bisogno della lotta di classe per abbattere il capitalismo e conquistare il socialismo e il potere politico del proletariato, cominciando col buttare giù il governo Conte e la sua dittatura antivirus al servizio del regime capitalista e neofascista.
 

27 maggio 2020